lunedì 19 giugno 2017

Il gusto amaranto del sonno

Non ti ricordi quell'aria spinata
sempre più densa, sul far del meriggio
sopra le case assolate, sul viale
che più ingiallito gridava di sete?
Dal suo balcone di ruggine rossa
spicchi di bianco mostrava quel cielo,
tu coi ginocchi scrostati di bimbo
stavi e giocavi in salotto, da solo.
Senti l'odore di antico che ancora
sembra abitarti nel cuore, lontano:
bambole e fiori e poi bianchi centrini
sotto carillon, bomboniere e cristalli.
Dentro i ritratti baffuti lo sguardo
si disperdeva negli occhi già vecchi
di giovinetti che ti erano nonni,
che la miseria scavò con la fame.
Poi la mobilia pesante e legnosa
pareva dirti all'orecchio: "Tabbuto",
mentre la pendola che rintoccava
toccava il tempo, ma il tempo non c'era.
Santi e lumini celavan l'argento
che riposava su vecchie posate:
le buone cose di pessimo gusto
dietro l'opaco parlavano ancora.
Mentre la polvere si riposava
addosso ai lutti un po' sparsi per casa,
ti allontanavi per poi riscoprire
l'aspro di un dire impastato col fango:
dalle altre stanze un diverso vociare
crespo e rugoso grattava sull'uscio,
e prima ancora di farti capire
ti suggeriva il sudore dei campi.
Terra che grida, violenta e sanguigna
ed incrudisce le mani rugose
sopra la zappa, l'aratro e le bestie:
l'agro di un vivere chiusi là fuori.
Tutto quel mondo anzitempo sepolto
ti dava il gusto amaranto del sonno,
di quello eterno che lì da piccino
aveva il suono di un'eco accennata.
Non ti ricordi la strada, al ritorno
che si snodava tra campi e palmenti,
l'aria del mare e di casa che andava
a colorarti la vita di nuovo?
Quei pomeriggi d'estate là in fondo
dove finisce ogni cosa, tenevi
come in catene ogni gioco innocente
e tutto il peso di un tronco avvizzito
già similmente stringeva il tuo cuore:
una signora che tu sconoscevi
solleticava di nero la mente
e quel languore che antico sentivi
ti strugge ancora, e più non lo scordi.

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